SUI RAPPORTI TRA LA “VECCHIA” FATTISPECIE DI CONCUSSIONE PER INDUZIONE E LA “NUOVA” IPOTESI DI INDUZIONE INDEBITA PREVISTA DALL’ART. 319 TER (INTRODOTTO DALLA LEGGE N. 190/2012) Autorità: Cassazione penale sez. VI Data: 11 febbraio 2013 Numero: n. 11792 Parti: C. Fonti
A seguito della nuova l. 6 novembre 2012 n. 190, che ha modificato i reati in tema di concussione e corruzione, deve ritenersi che tra la precedente fattispecie incriminatrice della concussione per induzione e la nuova ipotesi di induzione indebita, prevista dall’art. 319 quater c.p., è ravvisabile, non certo una “abolitio criminis”, ai sensi dell’art. 2, comma 2, c.p., bensì una mera successione di leggi penali nel tempo regolata dall’art. 2, comma 4, c.p., essendo riconoscibile una continuità di illecito tra i due reati. Infatti, il legislatore del 2012 ha riproposto nel nuovo art. 319 quater c.p. una descrizione degli elementi costitutivi del reato di induzione indebita sostanzialmente identica a quella degli elementi costitutivi del reato di concussione per induzione di cui al previgente art. 317 c.p. Né conduce a differente conclusione la circostanza che il privato, destinatario dell’induzione, già soggetto passivo nella previgente disciplina dell’art. 317 c.p., sia oggi punibile come concorrente necessario, giusta la previsione del comma 2 dell’ art. 319 quater c.p., giacché la “struttura bilaterale” del nuovo reato non modifica affatto una fattispecie che, con riferimento alla posizione del pubblico funzionario, resta immutata nei suoi elementi strutturali (salva una diversa cornice sanzionatoria rispetto all’originaria disciplina del previgente art. 317 c.p.). Cassazione penale sez. VI, 11 febbraio 2013, n. 11792
CONSIDERATO IN DIRITTO
- Ritiene la Corte che il ricorso vada rigettato, sia pur con le precisazioni che seguono in ordine al trattamento sanzionatorio, con riferimento al quale va disposto l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, con rideterminazione della pena principale e di quella accessoria.
- Il primo motivo del ricorso è manifestamente infondato. Costituisce ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte il principio secondo il quale la regola per cui il contrasto tra il dispositivo e la motivazione della sentenza deve essere sempre risolto con il criterio della prevalenza dell’elemento decisionale su quello giustificativo, non può costituire un canone interpretativo inderogabile, attesa l’ampia gamma dei contrasti che possono in proposito sussistere (così, tra le tante, Sez. 4, n. 27976 del 24/06/2008, P.G. in proc. Adame, Rv. 240379): più in dettaglio, si è detto che quella regola incontra una deroga laddove la difformità dipenda da un errore materiale relativo alla pena indicata in dispositivo, palesemente rilevabile dall’esame della motivazione in cui si ricostruisca chiaramente ed inequivocabilmente il procedimento seguito dal giudice per determinare la pena, con la conseguenza che, in tal caso, la motivazione prevale sul dispositivo (così, ex plurimis, Sez. 6, n. 8916 del 08/02/2011, P., Rv. 249654; Sez. 1, n. 37536 del 07/10/2010, confi, comp. In proc. Davll’a, Rv. 248543; Sez. 3, n. 38269 del 25/09/2007, Tafuro, Rv. 237828). Di tale regula iuris la Corte di appello di Venezia ha fatto buon governo chiarendo come l’indicazione, contenuta nel dispositivo della sentenza di primo grado, del reato di cui al capo C) dell’imputazione come quello più grave tra quelli riconosciuti a carico dell’imputato e posti in continuazione, fosse stato il frutto di un palese errore materiale, in quanto tale capo riguardava il reato allora qualificato in termini di tentata concussione ai danni della B., mentre nella motivazione della stessa sentenza i Giudici di prime cure avevano puntualizzato che il reato più grave era certamente quello previsto dal capo D) di concussione consumata continuata ai danni del D.L.: errore agevolmente riconoscibile anche dal fatto che, nel calcolo della sanzione da infliggere all’imputato, il Tribunale era partito dalla pena base di anni quattro di reclusione, chiaramente riferendosi al secondo reato, quello consumato, e non al primo, quello rimasto allo stadio del tentativo, cui quella sanzione non poteva essere riferita. Di tanto correttamente la Corte di merito ha dato atto nella propria motivazione, provvedendo alla correzione di quello che non poteva che essere considerato un mero refuso. 3. Il secondo ed il terzo motivo del ricorso sono inammissibili perchè presentati per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge. Solo formalmente il ricorrente ha indicato, come motivo della sua impugnazione, il vizio di manifesta illogicità della motivazione della decisione gravata, non avendo, però, prospettato alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell’argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni; nè essendo stata lamentata, come pure sarebbe stato astrattamente possibile, una incompleta descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi desumibili dalle carte del procedimento. Il ricorrente, invero, si è limitato a criticare il significato che la Corte di appello di Venezia aveva dato al contenuto delle emergenze acquisite durante l’istruttoria dibattimentale di primo grado e, in specie, i criteri impiegati per la verifica dell’attendibilità delle deposizioni dei due principali accusatori. E, tuttavia, bisogna rilevare come il ricorso, lungi dal proporre un “travisamento delle prove”, vale a dire una incompatibilità tra l’apparato motivazionale del provvedimento impugnato ed il contenuto degli atti del procedimento, tale da disarticolare la coerenza logica dell’intera motivazione, è stato presentato per sostenere, in pratica, una ipotesi di “travisamento dei fatti” oggetto di analisi, sollecitando un’inammissibile rivalutazione dell’intero materiale d’indagine, rispetto al quale è stata proposta dalla difesa una spiegazione alternativa alla semantica privilegiata dalla Corte territoriale nell’ambito di un sistema motivazionale logicamente completo ed esauriente. Questa Corte, pertanto, non ha ragione di discostarsi dal consolidato principio di diritto secondo il quale, a seguito delle modifiche dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ad opera della L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, mentre è consentito dedurre con il ricorso per cassazione il vizio di “travisamento della prova”, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova obiettivamente ed incontestabilmente diverso da quello reale, non è affatto permesso dedurre il vizio del “travisamento del fatto”, stante la preclusione per il giudice di legittimità a sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, e considerato che, in tal caso, si domanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, qual è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione (così, tra le tante, Sez. 3, n. 39729 del 18/06/2009, Belluccia, Rv. 244623; Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215). La motivazione contenuta nella sentenza impugnata possiede una stringente e completa capacità persuasiva, nella quale non sono riconoscibili vizi di manifesta illogicità, avendo la Corte veneta analiticamente e convincentemente spiegato le ragioni per le quali le dichiarazioni delle due persone offese B. e D.L. dovessero considerarsi pienamente credibili: sottolineando come entrambe le persone offese non si fossero costituite parti civili, così dimostrando di non avere alcun particolare interesse a sostenere tesi calunniose, come pure confermato dal fatto che non avevano presentato alcuna denuncia contro il C., ma erano state chiamate a riferire quanto a loro conoscenza agli ufficiali di polizia giudiziaria che avevano iniziato le investigazioni in altra maniera; come le indicazioni della B. fossero risultate spontanee e genuine, anche perchè riferibili a due specifici episodi, senza che la stessa avesse inteso le due richieste di denaro, rivoltegli dall’imputato, come sollecitazioni di natura “scherzosa”: tanto che, dopo aver rifiutato la dazione della somma oggetto della prima indebita pretesa, ed ancora prima che partissero le indagini amministrative interne, ella si era lamentata con il comandante A. dell’Ufficio circondariale marittimo di (OMISSIS) ed aveva pure detto al C. che, di quel contegno, avrebbe riferito pure al comandante di fregata (OMISSIS); ed ancora, come le deposizioni del D.L. fossero risultate attendibili sotto l’aspetto soggettivo ed intrinseco, dato che il litigio che egli aveva avuto con il C. era risalente nel tempo e non aveva inciso sulla genuinità delle sue successive dichiarazioni; e che lo stesso D.L. aveva con puntualità chiarito come, a fronte di numerose altre pratiche, egli aveva ricevuto le richieste di denaro da parte dell’imputato con riferimento a circa trenta pratiche di immatricolazione di imbarcazioni, sollecitazioni di volta in volta formulate in luoghi appartati, dove altre persone non avrebbero potuto insospettirsi o notare qualcosa di anomalo (v. pagg. 21-24 sent. impugn.).
- Infondato è il quarto motivo con il quale il ricorrente si è doluto della mancata acquisizione, da parte della Corte di appello, dei verbali delle dichiarazioni rese dalle due persone offese, B. e D.L. nel corso della fase delle indagini preliminari. Corretta è stata la decisione dei Giudici di secondo grado i quali hanno rammentato l’esistenza dell’indirizzo giurisprudenziale secondo cui, nel giudizio di appello, è senz’altro rituale l’acquisizione di documenti, senza che sia necessaria un’apposita ordinanza che disponga a tal fine la rinnovazione parziale del dibattimento (così Sez. 4, n. 1025/07 del 17/10/2006, Caruso e altri, Rv. 236017), da tanto indirettamente desumendo la inoperatività di tale principio al caso di specie, nel quale la difesa dell’imputato non aveva chiesto l’acquisizione di documenti formati fuori dal procedimento, bensì di atti delle indagini. E’ doveroso aggiungere come la situazione processuale innanzi delineata appare disciplinata espressamente dall’art. 602 c.p.p., comma 3, riguardante il dibattimento di appello, che, nel fissare le condizioni per l’acquisizione – ai fini di lettura e, dunque, di utilizzabilità – degli atti compiuti nelle fasi antecedenti al giudizio di primo grado, non solamente prescrive che sia stata disposta la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale (come si evince dall’impiego della formula “Nel dibattimento può essere data lettura…”), ma soprattutto richiede il rispetto dei limiti fissati dagli artt. 511 e segg. del codice di rito: con la conseguenza che, nel giudizio di secondo grado, i verbali delle dichiarazioni rese dalle due persone offese ai P.M. o alla polizia giudiziaria durante la fase delle indagini sarebbe stati acquisibili – e, perciò, utilizzabili ex art. 526 c.p.p., comma 1, – esclusivamente laddove fosse stato disposta la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per un nuovo esame delle prevenute, solo dopo l’ascolto delle stesse persone offese (art. 511 c.p.p., comma 2) ed esclusivamente se le precedenti 6 dichiarazioni fossero state impiegate per le contestazioni, dunque ai fini della valutazione della credibilità dei testi medesimi (art. 502 c.p.p., comma 2).
5.1 Manifestamente infondato è il quinto motivo del ricorso. Conforme al dettato normativo appare la scelta operata dalla Corte di appello che ha qualificato la condotta accertata, oggetto dell’addebito mosso al C. con il capo D) dell’imputazione, in termini di concussione consumata e continuata, ai sensi dell’allora vigente art. 317 c.p.: avendo i Giudici di merito sottolineato come l’imputato, formulando quelle richieste di somme di denaro per definire ciascuna delle trenta pratiche di immatricolazione di natanti presentate dal D.L., avesse abusato della qualità e dei poteri di responsabile di quelle procedure, quale Capo ufficio diporto dell’Ufficio circondariale marittimo di (OMISSIS), avendo fatto valere la sua posizione di supremazia, derivante dall’esercizio della pubblica funzione affidatagli, per indurre il privato all’indebito; come sussistesse la fattispecie della concussione e non anche quella meno grave della corruzione, dato che le emergenze processuali avevano dimostrato che non vi era stato un accordo paritario tra il pubblico ufficiale ed il privato, ma che il secondo aveva subito il metus esercitato dal primo, il quale aveva fatto valere e pesare il suo ruolo, assoggettando l’altro; come, in questa ottica, fosse irrilevante che le richieste di denaro fossero state collegate al compimento di altrettanti atti dell’ufficio, in quanto tale circostanza è pacificamente ininfluente ai fini della configurabilità del delitto di concussione; ed ancora, come non fosse possibile la derubricazione del fatto-reato in quello di abuso di ufficio di cui all’art. 323 c.p., dato che tale fattispecie incriminatrice, come si desume dalla clausola di consunzione presente nell’inciso iniziale della relativa disposizione codicistica (“Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato…”), ha notoriamente una portata applicativa residuale (v. pagg. 22, 25 sent. impugn.).
5.2. Con la richiamata memoria, la difesa dell’imputato ha posto la questione dell’esatta qualificazione giuridica dei fatti accertati, in conseguenza dell’entrata in vigore della L. 6 novembre 2012, n. 190, contenente “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e della illegalità nella pubblica amministrazione”. Come è noto, tale legge, nel novellare la disciplina di vari reati contro la pubblica amministrazione, ha sostituito l’art. 317 c.p., con l’introduzione di una nuova fattispecie di “concussione”, configurabile ora solo per costrizione, ed ha introdotto l’art. 319 quater c.p., riguardante la nuova figura criminosa della “induzione indebita a dare o promettere utilità”, fattispecie che sostanzialmente si pone in una posizione intermedia tra la residua figura della condotta concussiva sopraffattrice e l’accordo corruttivo, integrante uno dei reati previsti dagli artt. 318 o 319 c.p.. Allo scopo di uniformare la normativa interna ai principi della Convenzione contro la corruzione approvata in ambito ONU nel 2003 ed a quelli della Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo, approvata in ambito di Consiglio d’Europa nel 1999 – ratificate in Italia rispettivamente dalla L. n. 116 del 2009. e da quella L. n. 110 del 2012 – la novella del 2012 ha “spacchettato” l’originaria ipotesi delittuosa della concussione, che nel testo previgente dell’art. 317 c.p., parificava le condotte di costrizione e di induzione, creando due nuove ipotesi di reato. La prima, che resta disciplinata dall’art. 317 c.p., conserva i caratteri della precedente fattispecie della concussione per costrizione, limitandosi ad incrementare il limite edittale minimo della pena detentiva, portata da quattro a sei anni di reclusione, e lasciando come soggetto attivo il solo pubblico ufficiale, con esclusione, dunque, dell’incaricato di pubblico servizio (che oggi, in presenza di tutti i presupposti di legge, è eventualmente punibile – pur con le incongruenze della operatività di un apparato sanzionatorio molto più severo – a titolo di estorsione aggravata dall’aver commesso il fatto con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad un pubblico servizio, dunque ai sensi dell’art. 629 c.p., e art. 61 c.p., comma 1, n. 9). La seconda ipotesi di reato, “scorporata” dal previgente art. 317 c.p., e ora regolata dall’art. 319 quater c.p., recante in rubrica – come anticipato – l’indicazione della nuova denominazione di “induzione indebita a dare o promettere utilità”, è configurabile, “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, laddove il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità: fattispecie, questa, configurabile anche a carico dell’incaricato di pubblico servizio, e sanzionata con la pena della reclusione da tre ad otto anni; e che oggi, giusta la previsione contenuta nello stesso art. 319 quater c.p., comma 2, comporta la punibilità anche del destinatario della pretesa, che “da o promette denaro o altra utilità”, il quale, da persona offesa nell’originaria ipotesi di concussione per induzione, diventa concorrente necessario nella nuova fattispecie di reato. Ora, tenuto conto che, nel caso di specie, la condotta ritenuta, a carico dell’odierno ricorrente – pur in origine contestata nel capo D) dell’imputazione, in forma ambigua, con riferimento ad entrambe le forme di concussione, sia di costrizione che di Induzione, previste dal vecchio art. 317 c.p. – è stata concretamente ritenuta dai Giudici di merito integrante un’ipotesi di concussione per induzione continuata, il problema che pone l’odierno ricorso non è tanto quello di definire il criterio discretivo tra le due nuove fattispecie delittuose, bensì quello di chiarire se, a seguito della entrata in vigore della novella del 2012, sia ipotizzabile una abolitio criminis, ai sensi del’art. 2 c.p., comma 2, con riferimento alla “vecchia” ipotesi di concussione per induzione, ovvero sia ravvisarle una mera successione di leggi penali nel tempo regolata dall’art. 2 c.p., comma 4, essendo riconoscibile una continuità di tipo di illecito tra il precedente reato di concussione per induzione ed il nuovo reato di induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui al più volte citato art. 319 quater c.p.. La Corte ritiene di dover privilegiare la seconda delle indicate soluzioni. In tal senso va valorizzato, per un verso, l’esito del confronto strutturale tra le due considerate disposizioni, che permette agevolmente di rilevare come, a parte l’inciso iniziale, 7 il legislatore della novella abbia riproposto nel nuovo art. 319 quater c.p., una descrizione degli elementi costitutivi del reato di induzione indebita sostanzialmente identica a quella degli elementi costitutivi del reato di concussione per induzione, di cui al previgente art. 317 c.p.. Per altro verso, l’analisi del giudizio di disvalore che qualifica le due fattispecie, risultante identico in entrambe le norme, essendo ugualmente colpite – fatta salva la riduzione, con la nuova legge, del trattamento sanzionatorio – vicende criminose identiche, consistenti nell’iniziativa di induzione illecita posta in essere da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio. Nè conduce ad una differente conclusione la circostanza che il privato, destinatario della induzione, che da ovvero promette denaro o altra utilità al pubblico ufficiale oppure all’incaricato di pubblico servizio, già soggetto passivo nella previgente disciplina dell’art. 317 c.p., sia oggi punibile come concorrente necessario, giusta la previsione del sopra menzionato art. 319 quater c.p., comma 2. Tale “struttura bilaterale” del nuovo reato – che è sicuro essere stata il frutto della scelta del legislatore di evitare che potessero rimanere impunite condotte che, soprattutto nella logica dei rapporti internazionali, vengono parificate alla corruzione, e che, quindi, potessero risultare elusi gli obblighi derivanti dalle menzionate Convenzioni – non modifica affatto una fattispecie che, con riferimento alla posizione del pubblico funzionario, resta immutata nei suoi elementi strutturali (salva, come detto, la diversa cornice sanzionatoria).
5.3. Il riconoscimento di una continuità normativa tra la vecchia fattispecie di concussione mediante induzione e la nuova di induzione indebita a dare o promettere denaro o utilità, impone, a mente della norma dettata dall’art. 2 c.p., comma 4, l’applicazione retroattiva della disposizione sopravvenuta, più favorevole in ragione del già richiamato abbassamento di entrambi i limiti edittali. Ma se ciò, con riferimento al caso di specie, non comporta per l’imputato alcuna effetto benefico in ordine al termine di prescrizione – che si riduce dagli originari quindici anni, aumentabili a ventidue anni e mezzo, già previsti per il reato di concussione di cui al previgente art. 317 c.p., agli attuali otto anni, aumentabili fino a dieci anni per l’incensurato – dato che il reato continuato del capo D) risulta contestato all’odierno ricorrente come commesso a partire dalla primavera del 2003 e, dunque, non si è ancora estinto, un problema si pone per la quantificazione della pena principale inflitta, considerato che il limite edittale minimo è stato ridotto da quattro a tre anni di reclusione. Tuttavia, nella fattispecie va disposto l’annullamento della sentenza impugnata senza rinvio ai sensi dell’art. 620 c.p.p., comma 1, lett. l), con rideterminazione della pena, operazione in questa sede consentita dato che non richiede alcun accertamento ovvero alcun esercizio di potere discrezionale (in questo senso, tra le tante, Sez. 4, n. 41569 del 27/10/2010, Negro, Rv. 248458). Ciò tenuto conto che i Giudici di merito avevano determinato la pena da irrogare al C. partendo, per la pena base, dal minimo edittale di quattro anni, riducendola di un terzo per la riconosciuta attenuante di cui all’art. 323 bis c.p., e poi aumentandola, per la contestata continuazione interna, di appena due mesi (oltre all’ulteriore aumento della pena per la continuazione con l’altro reato accertato del capo C), reato che, come vedremo, non viene toccato da questioni di diritto intertemporale). Ne consegue che la pena può essere rideterminata nella misura totale di anni due mesi due di reclusione, partendo dalla pena base di anni tre di reclusione – pari al nuovo limite edittale minimo fissato dal più favorevole art. 319 bis c.p. – ridotta di un terzo per l’indicata circostanza attenuante, ed aumentata di mesi uno e giorni quindici per la continuazione interna (operando una riduzione proporzionale di un quarto anche sull’originario aumento di due mesi), fermo restando l’altro aumento di giorni quindici di reclusione per la continuazione con il citato reato sub capo C).
5.4. Per completezza va aggiunto che la più volte menzionata L. n. 190 del 2012, ha pure modificato l’art. 322 c.p., sostituendo, nel comma 1, le parole “che riveste la qualità di pubblico impiegato, per indurlo a compiere un atto del suo ufficio” con quelle “per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri”; e sostituendo per intero il comma 3 con il seguente: “La pena di cui al primo comma si applica al pubblico ufficiale o all’incaricato di un pubblico servizio che sollecita una promessa o dazione di denaro o altra utilità per l’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri”. Modifica che risponde esclusivamente all’esigenza di adeguare le due fattispecie incriminatrici della istigazione alla corruzione alla nuova figura criminosa della corruzione per l’esercizio delle funzioni, di cui all’art. 318 c.p., come riscritto dalla stessa novella legislativa. Con riferimento al caso portato all’odierna attenzione di questa Corte, tale modifica non comporta, dunque, alcuna particolare questione di diritto intertemporale rispetto al reato contestato al capo C) dell’imputazione, per il quale il C. è stato ritenuto penalmente responsabile dai Giudici di secondo grado. E ciò perchè la nuova fattispecie incriminatrice della corruzione per l’esercizio della funzione ha comportato un ampliamento, e non un restringimento del rilevante penalmente, rispetto alla “vecchia” figura della corruzione per un atto dell’ufficio, di cui al previgente art. 318 c.p.: reato quest’ultimo che deve considerarsi “assorbito” nel nuovo e più ampio delitto previsto dal rinnovato art. 318 c.p., con analoghi effetti anche per le connesse ipotesi di istigazione alla corruzione, di cui al citato art. 322 c.p., commi 1 e 3. D’altra parte, il rinvio contenuto in tali commi dell’art. 322 c.p., alla pena stabilita dall’art. 318 c.p., comma 1, – i cui limiti edittali sono stati sensibilmente incrementati – esclude che la sopravvenuta modifica in peius del trattamento sanzionatorio possa avere efficacia retroattiva nei confronti dell’odierno ricorrente. Deve, dunque, affermarsi il principio di diritto per il quale “vi è continuità normativa tra le nuove disposizioni in materia di istigazione alla corruzione contenute nell’art. 322 c.p., commi 1 e 3, come sostituite dalla L. n. 190 del 2012, e le previgenti disposizioni contenute negli stessi commi, in quanto la finalità di tali modifiche è stata esclusivamente quella di adeguare le 8 due fattispecie incriminatrici della istigazione alla corruzione, ivi previste, alla nuova figura criminosa della corruzione per l’esercizio delle funzioni, di cui all’art. 318 c.p., anch’esso sostituito dalla stessa L. n. 190 del 2012: ciò fatto salvo il divieto di applicazione retroattiva delle nuove norme, ex art. 2 c.p., comma 4, nella parte in cui risultano ampliata la portata operativa della nuova fattispecie di corruzione di cui al predetto art. 318 (che assorbe la “vecchia” ipotesi della corruzione impropria) ed incrementata la relativa cornice sanzionatola”.
- Manifestamente infondato è il sesto motivo del ricorso presentato nell’interesse del C.. Il ricorrente pretende che in questa sede si proceda ad una rinnovata valutazione delle modalità mediante le quali il giudice di merito ha esercitato il potere discrezionale a lui concesso dall’ordinamento ai fini del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche: esercizio che deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice in ordine all’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (così, tra le molte, Sez. 6, n. 6866/10 del 25/11/2009, Alesci e altri, Rv. 246134; Sez. 1, n. 3232 del 13/01/1994, Palmisano, Rv. 199100; Sez. 1, n. 758/04 del 28/10/1993, Braccio, Rv. 196224). Nella specie, del tutto legittimamente la Corte di merito ha ritenuto ostativo al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche all’imputato, la gravità delle condotte poste in essere dal prevenuto, in relazione alla loro prolungata reiterazione ed indifferenziata sistematicità, trattandosi di uno dei parametri – rispetto al quale, nella fattispecie, sono stati congruamente giudicati recessivi la formale incensuratezza e lo stato di servizio indenne da precedenti negativi – considerati dall’art. 133 c.p., applicabile anche ai fini dell’art. 62 bis c.p. (v. pag. 26 sent. impugn.).
- L’ultimo motivo del ricorso è fondato. L’imputato si è doluto del fatto che la Corte di appello abbia confermato la pronuncia di primo grado nella parte in cui era stata disposta l’applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, laddove, essendo stata ridotta la pena detentiva al di sotto del limite dei tre anni di reclusione, tale sanzione accessoria, giusta la previsione dell’art. 317 bis c.p., doveva essere dai Giudici di secondo grado disposta nella forma dell’interdizione temporanea. E, tuttavia, il riconoscimento della fondatezza del motivo comporta solo l’annullamento senza rinvio della sentenza gravata, in quanto la censurata omissione ha avuto ad oggetto una mancata statuizione obbligatoria consequenziale alla pronuncia adottata, come tale suscettibile di integrazione senza l’esercizio di alcun potere discrezionale, essendo pure fissata dalla legge la durata della pena accessoria in questione (art. 37 c.p.).
- La riconosciuta fondatezza di uno dei motivi di gravame esclude la soccombenza del ricorrente e, dunque, la condanna dello stesso al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatolo, determinando la pena principale in quella di anni due mesi due di reclusione e quella accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici per anni due. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2013.
Depositato in Cancelleria il 12 marzo 2013 Cassazione penale sez. VI, 11 febbraio 2013 (udienza) , n. 11792