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Il concetto del danno nei reati contro il patrimonio: truffa contrattuale ed insolvenza fraudolenta. L’ammissibilità o meno del tentativo nelle predette fattispecie

La concezione del danno nell’ambito dei reati della truffa contrattuale e dell’insolvenza fraudolenta risente inevitabilmente delle diverse costruzioni che dottrina e giurisprudenza prospettano con riferimento allo stesso concetto di patrimonio, che ha subito nel tempo una crescente evoluzione dovuta essenzialmente ad una interpretazione costituzionalmente orientata dello stesso.

Ad una concezione del patrimonio che risultava ancorata al concetto di proprietà e di dominio di tipo essenzialmente quiritario, in cui vengono in rilievo tutti quei rapporti giuridici attivi e passivi che fanno capo alla sfera giuridica di un soggetto, si contrappone una concezione che si sgancia da queste situazioni giuridicamente rilevanti – in particolare in tema di proprietà di diritti reali e di diritti di credito – facendo proprio un concetto di patrimonio, che è essenzialmente collegato a valori economici ed alle utilità economiche suscettibili di incrementare o di diminuire la sfera giuridica patrimoniale di un soggetto, anche ove si tratti di situazioni o aspettative di mero fatto.

 Questa concezione del patrimonio è stata recepita in ambito civilistico con riferimento all’art. 2043 c.c.. In un diritto penale costituzionalmente orientato, il concetto civilistico di patrimonio, comunque inteso, non può essere ignorato in considerazione del fatto che la proprietà, così come tutti i rapporti giuridici patrimoniali, assume un ruolo strumentale rispetto al bene persona ed ai valori che la stessa assume. La nozione di patrimonio assume un ruolo funzionale a prescindere dagli scopi patrimoniali e non patrimoniali che comunque possono venire in rilievo.

Le norme incriminatici che prevedono come elemento costitutivo il danno o il profitto non consentono di identificare aprioristicamente l’uno e l’altro in termini essenzialmente giuridici, economici o diversamente ancora in termini tipicamente funzionali. E’compito dell’interprete di volta in volta verificare qual è il concetto di danno o di profitto che il legislatore ha voluto privilegiare nell’ambito della singola fattispecie incriminatrice.

Con riferimento specifico al reato di truffa assume un rilievo decisivo, ai fini di stabilire quale sia il momento consumativo, una interpretazione in termini puramente giuridici o economici della nozione di danno e di profitto.

Nell’ambito della distinzione tra reati a forma libera e reati a forma vincolata, la fattispecie rubricata come truffa costituisce esempio emblematico di questa seconda categoria in cui il legislatore identifica una tipologia di condotta complessa consistente in artifici e raggiri idonei ad indurre in errore la controparte.

Il reato di truffa è il tipico delitto che si realizza attraverso una cooperazione artificiosa della vittima, ove il consenso non è frutto di una libera scelta, ma dell’errore derivante dall’inganno perpetrato dal soggetto attivo del reato.

Il delitto di truffa è uno dei tipici casi di reato in contratto ove legislatore incrimina non il contratto in sé, che può essere sostanzialmente lecito, ma le modalità aggressive della condotta altrui che tendono a carpire artificiosamente il consenso della vittima attraverso una sua induzione in errore.

L’iter formativo delineato dalla norma in questione è strutturato in termini rigorosi – con l’esclusione del riferimento agli artifici e raggiri che hanno portata ampia e generica – nella quale emerge una serie concatenata di momenti eziologici che per il tramite degli artifici e raggiri arrivano all’induzione in errore e per effetto di ciò all’atto di disposizione patrimoniale utile a produrre contestualmente la verificazione del danno per la vittima e del profitto per l’autore del reato.

Proprio perché si tratta di reato in contratto, che postula la cooperazione artificiosa della vittima, viene in rilievo non solo il pregiudizio al patrimonio da decodificare in termini di danno e di profitto economico o giuridico-economico, ma altresì la libertà di autodeterminazione della vittima, venendo lesa quella prerogativa della persona che è la libertà di autodeterminazione agli atti. E’ questo il motivo per cui si afferma che la truffa è un reato essenzialmente plurioffensivo.

Questo aspetto viene valorizzato dalla giurisprudenza che ha ipotizzato una particolare figura di truffa, quella contrattuale: un soggetto per effetto degli artifici e dei raggiri adoperati dalla controparte è indotto in errore e si determina a compiere un atto di disposizione personale consistente nella stipulazione di un contratto, che diversamente non avrebbe concluso.

Il punto nodale, è quello che investe la verifica della realizzazione del danno e del profitto derivante dalla conclusione di un contratto a prestazioni corrispettive, dove il valore economico della controprestazione può anche rappresentare un certo equilibrio economico rispetto alla controprestazione.

Un primo interrogativo si pone: in un contratto di compravendita in cui il prezzo è sostanzialmente equo rispetto al valore del bene compravenduto, l’atto posto in essere ha effetti sotto il profilo penalistico, in quanto ha ugualmente carpito il consenso della vittima?

Sotto il profilo civilistico, tale contratto può essere suscettibile di annullamento per errore, determinato da dolo, su un elemento essenziale o se l’elemento soggettivo cade su un elemento non essenziale del contratto, dolo incidens, la sanzione non è quella dell’annullabilità, ma del risarcimento del danno, in quanto il soggetto tratto in inganno avrebbe concluso quel contratto a condizioni diverse da quelle concluse.

Sotto il profilo penalistico, secondo la Cassazione, è sufficiente che ricorra il dolo incidens, rilevando il fatto che il soggetto abbia stipulato un contratto, che senza artifici e raggiri non avrebbe compiuto o l’avrebbe stipulato a condizioni diverse, più vantaggiose.

Un secondo interrogativo che si pone è se il reato di truffa sia un reato di pericolo o di danno.

 Nel primo caso, la fattispecie sarebbe volta a scongiurare qualunque lesione della libertà di determinazione della vittima a prescindere dal pregiudizio economico, in modo che si verrebbe a tutelare la stessa stipulazione del contratto che la vittima non avrebbe concluso o avrebbe concluso a condizioni diverse.

Così argomentando, il legislatore ha inteso tutelare la stessa libertà di stipulazione ed il danno, pertanto, è in re ipsa. Un contratto equilibrato sotto il profilo del sinallagma dell’onerosità, in realtà, potrebbe ugualmente ricadere nell’ambito previsionale del 640 c.p..

Attraverso questo escamotage – in cui il contratto che la vittima non avrebbe concluso o avrebbe concluso a condizioni diverse già di per sé costituisce un evento pregiudizievole – la giurisprudenza opera una vera e propria commistione tra il profilo del pericolo e del danno insito in una stessa stipulazione di un contratto equiparandolo ad un danno di carattere patrimoniale.

Il contratto anche se è economicamente equilibrato il fatto che il soggetto l’abbia concluso per effetto dell’inganno già di per sé costituisce un pregiudizio ed integra gli estremi del reato di truffa.

Di fronte ad alcune critiche della dottrina, la giurisprudenza ha poi successivamente affermato che nella truffa contrattuale il problema del danno e del profitto si può risolvere sotto altro aspetto.

In realtà, se anche il contratto è economicamente equilibrato, se cioè una determinata prestazione assume un valore economico corrispondente al corrispettivo pagato, in realtà bisogna vedere in concreto se quel contratto presenti per il deceptus una qualche utilità economica e cioè se quella prestazione dedotta in contratto possa sotto un certo aspetto rispondere a quell’esigenza di utilità; si passa progressivamente ad una concezione del danno che è essenzialmente di tipo funzionale. Se la prestazione dedotta in contratto non è in grado di offrire alla vittima alcuna utilità, allora è evidente che in questo va ravvisato il danno, che è elemento costitutivo.

Questa interpretazione è una concezione giuridica del danno che è essenzialmente funzionale, intesa in termini soggettivi e non oggettivi.

Quando occorre verificare se una determinata prestazione presenti una qualche utilità, idonea a soddisfare in qualche misura i bisogni della vittima, si adotta una concezione non più assoluta del danno, ma relativa e personalistica.

In realtà, identificando il danno con la stipulazione del contratto, si stravolge il meccanismo consumativi tipico della truffa, il quale dovrebbe richiedere oltre al compimento dell’atto dispositivo, la verificazione del danno e del profitto. Una siffatta ricostruzione del reato contratto della truffa sembra anticipare la soglia della punibilità a quello che normalmente dovrebbe essere un caso di tentata truffa, anziché di truffa consumata.

Questo aspetto assume particolare connotazione anche nel caso di insolvenza fraudolenta.

La dissimulazione dello stato di insolvenza è l’elemento centrale su cui il legislatore incentra la differenza rispetto al reato di truffa. La condotta atta a dissimulare il proprio stato di insolvenza è differente rispetto alla utilizzazione di artifici e raggiri volti ad indurre in errore la controparte.

Il concetto di dissimulazione dello stato di insolvenza ha fatto dire alla dottrina che, in realtà, nella fattispecie di cui all’art. 641 c.p. ci troviamo nell’ambito di una situazione che è quella dello sfruttamento dell’ignoranza altrui.

Dissimulare lo stato di insolvenza significa nascondere, celare la propria incapacità di adempiere con la volontà di assumere un vincolo obbligatorio che si sa che non potrà essere onorato alla scadenza, situazione della quale l’agente intende approfittare consumando la prestazione che comunque gli è offerta in anticipo.

In realtà, secondo parte della dottrina e della giurisprudenza l’inadempimento sarebbe al di fuori della struttura del fatto, assurgendo ad una vera e propria condizione obiettiva di punibilità dove, in realtà, si tende ad affermare che il reato risulta già di per sé perfetto di tutti i suoi elementi costitutivi e tuttavia non punibile perché il legislatore ricollega all’inadempimento l’effettiva punibilità di fatto.

L’art 44 c.p. che disciplina le condizioni oggettive di punibilità ritiene irrilevante il collegamento eziologico e psichico tra la condotta e la condizione obiettiva di punibilità.

E’ chiaro che secondo questa ricostruzione l’insolvenza fraudolenta mirerebbe a garantire il rispetto del principio di buona fede e di correttezza nelle trattative e nella formazione del contratto, dando rilevanza proprio all’aspetto dissimulatorio del proprio stato di insolvenza e all’intento di non adempiere quel vincolo che, comunque, viene assunto contrattualmente.

In realtà, secondo questa ricostruzione l’insolvenza fraudolenta si presenterebbe come reato di pericolo del patrimonio della vittima e non già come reato di danno. Il verificarsi dell’inadempimento essendo considerata una condizione obiettiva di punibilità presuppone già un reato perfetto in tutti i suoi elementi costitutivi.

Una fattispecie, quella dell’art. 641 c.p., che si incentra, secondo questa ricostruzione, sul pericolo che è determinato dall’assunzione di un vincolo obbligatorio con intento di non adempierlo da parte di un soggetto che dissimula il proprio stato di insolvenza.

Viceversa, la tesi che, invece, riconduce l’inadempimento nella struttura del reato e ne fa un vero e proprio evento collegato eziologicamente alla condotta dell’agente dell’assunzione mediante dissimulazione del proprio stato di insolvenza del vincolo obbligatorio – consistente nel non adempierlo – configura la fattispecie di insolvenza fraudolenta in termini di reato di danno. L’inadempimento configura un danno economico patrimoniale nel momento in cui si traduce nella mancata acquisizione della controprestazione di chi ha già effettuato in anticipo la propria prestazione.

Secondo la prima ricostruzione, minoritaria, il danno costituisce una condizione obiettiva di punibilità e quindi il reato deve considerarsi perfetto e consumato con l’assunzione del vincolo obbligatorio che sia stato assunto simulando il proprio stato di insolvenza e con l’intenzione di non adempiere.

Viceversa, per chi sostiene che l’inadempimento sia evento costitutivo e perfezionativo del reato, il reato assume la connotazione di reato di danno, ed il tentativo, pertanto, è ampiamente configurabile.

Per il legislatore, infatti, è indifferente che l’agente muti opinione e voglia adempiere.

Innanzi all’ipotesi in cui un soggetto abbia assunto un obbligazione con l’intento di non adempiere, successivamente, poi, abbia mutato avviso ed intenda adempiere, ma si trovi nell’impossibilità di farlo per fatti a lui non imputabili, tale mutamento dell’elemento dovrebbe essere valutato come aspetto irrilevante sotto il profilo psicologico quando il suo inadempimento sia conseguenza della condotta precedentemente eseguita.

In realtà, a conforto della tesi secondo cui si tratta di un reato di danno e non di pericolo, emerge poi dalla previsione contenuta dalla stessa norma in cui il legislatore sancisce il principio della non punibilità del soggetto, il quale successivamente, ma prima della condanna, adempia alla propria obbligazione.

La norma sembra premiare la reminiscenza post delictum dell’agente.

E’ verosimile ritenere che, in realtà, che il reato di insolvenza fraudolenta è un reato di danno patrimoniale, dove il danno consiste nell’inadempimento.

Il fatto che il legislatore preveda questa causa estintiva del reato sta a significare che la ratio della estinzione è collegata al venir meno del danno patrimoniale.

E’ in questi termini che si dice che l’inadempimento è l’evento e non la condizione obiettiva di punibilità. Il venir meno del danno patrimoniale determinerebbe una causa estintiva del reato.

Il problema del tentativo assume diversa connotazione a seconda della concezione del danno nella struttura di questi reati.

Se la truffa contrattuale viene identificata nella mera stipulazione del contratto che diversamente la vittima, senza induzione in errore dovuta ad artifici o raggiri, non avrebbe compiuto, è chiaro che è sufficiente di per sé la conclusione del contratto a consumare la fattispecie della truffa contrattuale; il tentativo, viceversa, potrebbe ipotizzarsi con riferimento a quella ipotesi in cui pur in presenza di idonei artifici e raggiri, ma che non sfociano nella conclusione del contratto.

La idoneità è oggetto di una verifica di carattere prognostico, che tenga conto delle condizioni della vittima secondo parametri ordinati alla diligenza e della figura del contraente medio di uno specifico settore.

La consumazione si identificherebbe con la conclusione del contratto che sarebbe a sua volta determinativa del danno e del profitto. In sostanza, l’agente conseguirebbe un profitto consistente proprio nella acquisizione di una controprestazione che, senza induzione in errore, non avrebbe acquisito.

Il contratto, diversamente, non si sarebbe concluso, identificandosi, pertanto, il danno nella conclusione del contratto, che si traduce per il soggetto passivo del reato in un pregiudizio in termini giuridico, economico. Il profitto si riduce proprio nel conseguimento di un vantaggio economico in capo al soggetto attivo e correlativamente in una deminutio patrimoni.

 La truffa contrattuale sarebbe solo punibile nel caso in cui il rapporto di valore tra prestazione e controprestazione risulti alterato ed il valore si palesi notevolmente superiore rispetto al valore economico della prestazione dell’agente.

Il tentativo pertanto, così argomentando, va inquadrato con riferimento al profilo della esecuzione del contratto. A titolo esemplificativo è di tutta evidenza che se il soggetto passivo del reato si avvede del raggiro di cui è stato oggetto e non esegue la prestazione, il danno al patrimonio non si verifica e correlativamente l’agente non ha realizzato quel profitto che aveva intenzione di acquisire.

La sola stipulazione del contratto non è idonea di per sé ad integrare gli estremi del perfezionamento della fattispecie , se poi ad essa non segue l’esecuzione e non si verifichi il danno.

Laddove si opti per una concezione del danno che si identifica con la conclusione di un contratto non solo non voluto, ma che non presenta nessuna attitudine a soddisfare alcun interesse in capo alla vittima il pregiudizio è inteso in termini funzionali.

Nell’ambito dell’inadempimento fraudolento, se l’inadempimento costituisce il dato qualificativo del danno patrimoniale previsto dalla fattispecie, attribuendo, pertanto, ad esso la qualifica di una condizione obiettiva di punibilità, tale tesi non lascia spazio alla configurazione del tentativo. Non è possibile ipotizzare un tentativo solo nella fase di formazione del contratto. E’ chiaro che se l’inadempimento costituisce una condizione oggettiva di punibilità essa, presuppone come sua antecedente il perfezionarsi della fattispecie contrattuale.

Nell’ambito del reato di truffa costituiscono evento della fattispecie criminosa il danno ed il profitto, costituenti due facce della stessa medaglia laddove si verificano nello stesso contesto cronologico.

Nel caso in cui sussista un certo sfalsamento temporale, cronologico tra danno e profitto e quindi uno sfalsamento economico la giurisprudenza è orientata ad affermare che il danno non si verifichi nel momento in cui viene rilasciato, per esempio, il titolo di credito, la cambiale o l’assegno oppure, ancora, nel momento in cui venga consegnata la merce al vettore.

In questi casi, si afferma che se l’agente consegue il profitto con l’acquisizione della controprestazione; il danno è sfalsato temporalmente dalla effettiva riscossione della somma di denaro portata nel titolo di credito ovvero con riferimento al momento in cui la merce venga consegnata al destinatario.

I due momenti del danno e del profitto non sempre, pertanto, coincidono, trattandosi di aspetti che sono rilevanti per la integrazione della fattispecie, soltanto alla loro integrale verificazione può ipotizzarsi la consumazione del reato.

Avv. Edoardo Mobrici