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DIRITTO PENALE MILITARE

L’ordinamento penale militare trova le sue fonti su più testi di diritto positivo: alla Costituzione si aggiungono il codice penale comune e quello militare, a sua volta diviso in codice penale militare di pace e codice penale militare di guerra. Articolo 103 comma 3 della Costituzione stabilisce che: “I tribunali militari in tempo di guerra hanno la giurisdizione stabilita dalla legge. In tempo di pace hanno giurisdizione soltanto per i reati militari commessi da appartenenti alle forze armate.” E’ espressamente prevista nella Carta fondamentale l’esistenza di giurisdizioni particolari e distinte dalle rimanenti, con funzioni specifiche rispetto alla situazione di fatto presente: la pace o la guerra.

Due i limiti forti alla giurisdizione militare in tempo di pace, uno soggettivo e l’altro oggettivo: spetteranno a tale giurisdizione soltanto quelli commessi da appartenenti alle forze armate, purché qualificati come reati militari.

La definizione di ciò che è militare è data dall’articolo 52 della Costituzione: “la difesa della patria è sacro dovere del cittadino”. Sono richiamati in questa concezione i massimi valori, facendo divenire la difesa della patria un compito non di esclusiva appartenenza delle forze armate, ma spettante anche ai cittadini, contro qualsiasi atto, non solo bellico, mosso in opposizione allo Stato italiano. Muovendo dall’articolo 52 della Costituzione per reato militare si può intendere l’offesa ad un bene giuridico che riguarda la patria ed i valori ad essa connessi, comprendendo nella sua ampiezza il concetto di militarità e dei beni correlati, siano essi funzionali o strumentali, come il patrimonio dell’amministrazione militare. Tali beni protetti in linea teorica devono essere comparati con valori-limite come quello per il quale le forze armate devono informarsi allo spirito democratico della Repubblica, facendone parte e dipendendone anche dal profilo organizzativo.

Il reato militare non è a soggettività ristretta od esclusiva, poiché l’offesa a beni militari può provenire anche da estranei alle Forze Armate: quando vi è concorso in un reato proprio, l’imputazione di questo si estende anche ai non appartenenti alla categoria necessaria a costituirlo. E’ utile precisare che i reati esclusivamente militari, se commessi da non appartenenti alle Forze Armate non sono punibili dal codice militare, mentre i reati non unicamente tali, se commessi da civili, vengono giudicati dal tribunale ordinario.

Sono inoltre diverse le circostanze aggravanti ed attenuanti previste dai due regimi. Nel codice penale militare di pace medesimo vi sono previsioni espresse in cui “chiunque” può commettere il reato militare, ovverosia un non-militare che lo realizza in versione monosoggettiva.

“La legge penale militare si applica alle persone appartenenti alle forze armate dello Stato, ancorché, posteriormente al reato commesso, sia dichiarata la nullità dell’arruolamento o la loro incapacità di appartenere alle forze stesse; e, in generale, a chiunque presta di fatto servizio alle armi”. In questo modo l’articolo 16 arriva a tratteggiare la figura del militare di fatto, nella quale rileva la concretezza della situazione di prestare servizio alle armi, qualunque ne siano le ragioni, lecite o illecite, derivanti da fatto proprio od altrui. Tale disposto risente del periodo pre-bellico in cui i Codici furono emanati e che ora alla luce della Costituzione verrebbe probabilmente dichiarato incompatibile con i principi fondamentali, se non che la Corte Costituzionale non si è mai espressa sul tema per mancanza di casi a proposito. Vi è però un limite giurisprudenziale che nega il reato di diserzione (il mancato rientro protratto per 5 giorni) ai militari di fatto, posto in essere per ipotesi al fine di rimediare o ripristinare alla condizione. Il secondo comma dell’articolo 47 del codice penale militare di guerra estende la qualifica di reato militare ad “ogni altra violazione della legge penale commessa dall’appartenente alle Forze Armate con abuso di poteri o violazione dei doveri inerenti allo stato di militare, o in luogo militare”: in questa maniera tutti i reati previsti dalla legge penale comune diventano reato militare qualora commessi in luogo militare da appartenenti alle Forze armate, rimanendo comunque aperta la possibilità del concorso con l’estraneo. La normale imputazione di colpevolezza è il dolo, pur esistendo due ipotesi di reati militari punibili anche per la colpa: articolo 170 del codice penale militare di pace che riguarda il danneggiamento colposo e l’articolo 45 dello stesso codice che prevede l’eccesso colposo. Il maggior rigore si spiega con la disciplina tipica dei militari; non è tuttavia difficile poter pensare che il concetto di colpa nell’ambito militare altro non sia un intento di punire a titolo di responsabilità oggettiva. All’articolo 37 del codice penale militare di pace si afferma che “qualunque violazione della legge penale militare è reato militare”. Questa definizione non direttamente sostanziale, avviene attraverso dati formali: in presenza di una legge penale militare sarà reato militare tutto ciò che violi quella legge, assurgendo essa stessa a discrimina fra reato comune e militare. Il criterio in esame è un criterio nominalistico- formale, poiché è il legislatore a fissare in via preventiva quali siano i reati facenti parte della categoria, escludendo di fatto interpretazioni ed affidandosi ad un criterio certo e determinato per obbedire ad ovvie ragioni di legalità.

Il codice penale comune non potrà mai contenere reati militari sin dalla sua qualificazione: “comune” significa non militare. Il secondo comma dell’articolo 37 del codice penale militare di paceè reato esclusivamente militare quello costituito da un fatto che, nei suoi elementi materiali costitutivi, non è, in tutto o in parte, preveduto come reato dalla legge penale comune”: è una definizione formale nominale negativa. Nel codice penale comune reati militari ma, di fatto, ve ne sono di sostanzialmente militari negli elementi costitutivi, come l’articolo 266 riguardante l’istigazione di militari a disobbedire alle leggi e il 267 attinente il disfattismo economico, nonché il 247 sul “favoreggiamento bellico” e il 257spionaggio politico o militare”. Di diversa lettura è il terzo comma dell’articolo 37 del codice penale militare di pace: in “altra legge penale militare” si deve leggere sia la centralità del codice rispetto alle altre leggi, sia la qualificazione di esso come legge penale militare. Nello stesso comma di definiscono i delitti, quei reati militari che abbiano una delle pene previste dall’articolo 22. La pena militare ha un proprio sistema nell’ambito del diritto penale militare, trovando nell’articolo 22 del codice penale militare di pace le alternative fra la condanna a morte ad alla reclusione militare come pene principali. Posto che tale pena è stata rimossa per via legislativa e scoraggiata da accordi

internazionali che ne limitano fortemente il reinserimento, perdura come ipotesi remota nella Costituzione. L’articolo 27 afferma infatti che “non è ammessa la pena di morte se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”, se mai la pena capitale dovesse venire ancora introdotta nel nostro ordinamento troverebbe i confini che restringono la previsione ai soli casi di guerra e unicamente mediante l’introduzione con una legge militare. La chiave di volta per individuare la tipologia della pena è la qualifica del soggetto non quella del reato, comune o militare.

Accanto a militari e civili, vi è anche il soggetto che viene degradato che è automaticamente espulso dal rango di militare, sottoposto cioè ad una pena accessoria che esprime la sua indegnità. L’articolo 28 del codice penale militare di pace sancisce le condizioni necessarie alla degradazione: “la condanna all’ergastolo, la condanna alla reclusione per un tempo non inferiore a cinque anni e la dichiarazione di abitualità o di professionalità nel delitto, ovvero di tendenza a delinquere, pronunciate contro militari in servizio alle armi o in congedo, per reati militari, importano la degradazione.” La degradazione è diversa dalla rimozione del grado, in quanto essa non comporta la semplice perdita di grado e declassamento al livello più basso della gerarchia, bensì la completa dismissione dalle Forze Armate. Nei casi in cui i livelli della pena edittale non comportino la degradazione si applicherà la pena militare, in caso contrario, la pena comune, come riporta lo stesso articolo 27 del codice penale militare di pace, ancora una volta prestando rilevanza la qualifica del reo. Nell’eventualità che i militari commettano reati comuni cui si aggiunga o sia compresa la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, scatterebbe allo stesso modo la degradazione e l’allontanamento dalle armi, accompagnata dalla reclusione comune. In caso di reato comune compiuto da militare senza che operi l’interdizione dai pubblici uffici, vi sarà reclusione militare.

Ruolo centrale a che il codice di guerra diventi operativo è la dichiarazione dello stato di guerra, atto formale caduto in disuso che costringerebbe tale impianto normativo a rimanere lettera morta, facendo ritenere che esso avesse una applicazione automatica al ricorrere di determinati fatti (come stabilito dall’articolo 78 della Costituzione). L’operatività automatica dell’articolo 9 dello stesso codice prevedeva infatti che esso operasse rispetto ai “corpi di spedizione all’estero” assoggettandoli alla disciplina codicistica sia per il tempo di pace che per quello di guerra: da ciò il Parlamento ha nel tempo limitato l’operatività automatica ritenuta scontata, attraverso decreti legge. Nell’articolo 11 della Costituzione si sancisce che “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli, e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.”

La Carta fondamentale rifiuta la guerra come strumento di offesa e mezzo di politica estera, nonché come strumento giuridico per risolvere una controversia, rimangono però aperte altre ipotesi di giustificazione che non vengono escluse e che in passato sono state utilizzate per la partecipazione a conflitti, specialmente al di fuori dei confini dello Stato.

La prospettiva del codice penale militare è quella dell’integralità, ma la tecnica per realizzare questa concezione passa attraverso la complementarietà, non quella dell’articolo 16 dove si parla di “altra legge” trattandosi di un codice, ma nel senso che il codice stesso afferma di essere complementare giungendo allo stesso risultato per una diversa via. Tale impostazione non emerge da una norma particolare ed esplicita, ma si desume da singoli articoli che rinviano al codice penale comune. – L’articolo 42 del codice penale militare di pace che attiene alla legittima difesa in luogo di quella prevista all’articolo 52 del codice penale comune, integrandone i contenuti. – L’articolo 47 del codice penale militare di pace che introduce altre circostanze aggravanti rispetto al codice penale comune. – L’articolo 56 del codice penale militare di pace è un esempio di coordinamento fra i due codici, in cui vi sono degli elementi da integrare necessariamente con quello comune. Vi è poi una complementarietà nella complementarietà: il codice penale militare di pace si pone come fondamentale fra i codici militari, imponendo il ruolo di complementare a quello di guerra. L’articolo 19 del codice penale militare di pace stabilisce che “le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate dalla legge penale militare di guerra e da altre leggi penali militari, in quanto non sia da esse stabilito altrimenti”. Il codice penale militare di pace è sì complementare a quello comune, ma rivendica, fra i codici penali militari, la propria centralità, in parallelo con quanto accade per il codice penale comune all’articolo 16. L’articolo 47 del codice penale militare di guerra ribadisce la sua complementarietà con riferimento alla parte speciale: “nei casi non preveduti da questo codice, si applicano le disposizioni del codice penale militare di pace, concernenti i reati militari in particolare”. Nell’applicare il codice penale militare di guerra sarà dunque necessario coordinare i tre codici, in osservanza al principio di complementarietà che agisce a cascata e non permette di saltare alcun passaggio interpretativo da un codice all’altro. Tribunali militari. I giudici militari sono solo 103 confermando la caratteristica di una giurisdizione residuale: i tribunali sono a Padova, Verona, La Spezia, Torino, Roma, Napoli, Bari, Palermo e Cagliari cui corrispondono altrettante sedi di procure militari. La Corte Militare di Appello è unica con sede a Roma, con due sedi staccate a Verona e Napoli con rispettive Avvocature Generali Militari. La Corte di Cassazione ha sede a Roma con la Procura Generale Militare.

Le norme di principio sulla disciplina militare sono contenute nella legge 382/78 in seguito sostituita dalla legge 331/2001. L’articolo 1 fissa gli scopi costituzionali come la difesa dello Stato e la salvaguardia del bene nazionale in caso di pubbliche calamità. L’articolo 2 rende attraverso il giuramento, l’onore e la disciplina quali modalità di adempimento dei doveri della difesa della Patria e della libertà delle istituzioni. Nell’articolo 4 si ribadisce l’assoluta fedeltà alle istituzioni democratiche, che non si deve concretizzare in una cieca obbedienza, ma in una consapevole partecipazione attuata con senso di responsabilità; in tal modo, l’ordine manifestamente criminoso va sempre trasgredito in virtù della sua antigiuridicità. pur non essendo la disobbedienza non è un dovere meritevole di tutela. Qualora vi sia consapevolezza della criminosità del fatto vi è anche colpevolezza, essendo la riconoscibilità del fatto criminoso un criterio per valutare il grado della colpevolezza. In mancanza di consapevolezza si distingue fra mancanza rimproverabile, che costituisce colpa, e mancanza non rimproverabile cui non segue nessun grado di colpevolezza. Per l’integrazione del fatto è necessaria, come nel diritto penale comune, l’antigiuridicità e la colpevolezza.

I compiti del militare diventano problematici quando sono antigiuridici, essendo necessario un sindacato di legittimità sugli ordini impartiti cui corrisponde un dovere di disobbedienza unicamente a quelli considerati illegittimi, ovverosia criminosi.

Il criterio di commisurazione della colpa è inoltre lasciato alla libertà dell’interprete. Le regole sono mutuate dal diritto penale comune, all’articolo 51 dove si prevede l’adempimento di un dovere, mentre la manifesta criminosità gioca a favore del militare, poiché scusabile quando egli cada in errore di fatto o errore di diritto. “L’esercizio di un diritto o l’adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica Autorità, esclude la punibilità. Se un fatto costituente reato è commesso per ordine dell’Autorità, del reato risponde il pubblico ufficiale che ha dato l’ordine. Risponde del reato altresì chi ha eseguito l’ordine, salvo che, per errore di fatto, abbia ritenuto di obbedire a un ordine legittimo. Non è punibile chi esegue l’ordine illegittimo, quando la legge non gli consente alcun sindacato sulla legittimità dell’ordine”.

 Il disposto dell’articolo 51 del codice penale comune deve coordinarsi con l’articolo 4 della legge 382/78 in virtù del principio di complementarietà dopo l’abrogazione dell’articolo 40 del codice penale militare di pace; tuttavia, poiché gli elementi normativi della disposizione non trovano fattispecie concrete cui applicarsi, essa, seppur vigente, non è operativa. Non esiste una legge che vieti il sindacato di legittimità sull’ordine impartito ma neppure una legge che lo limiti. Il regolamento della disciplina militare attuativo della legge 382/78 è emanato con il d.p.r. 545/86, all’articolo 25 parte dal presupposto di legittimità dell’ordine impartito; se il militare è in dubbio se eseguire o meno l’ordine, ma lo esegue una volta ribadito, non si rinviene il dolo ma permane la possibilità della colpa per gli ordini anche non manifestamente criminosi.